Rapporto di lavoro e Social media

03-06-2024

Rapporto di lavoro e Social media

Intervistato qualche tempo fa sui rapporti tra il diritto alla privacy e la diffusione dei social media, l’antropologo Daniel Miller ha annotato

Se da una parte gli inglesi sono terrorizzati dai social media che violano la loro privacy, in Cina milioni di persone, che si sono spostate dalle zone rurali verso le zone industriali, vivono in spazi comuni, nei quali non esiste la privacy e solo attraverso i social media hanno scoperto per la prima volta di poter comunicare in maniera riservata. Ragionando su scala globale, pertanto, si può dire che mentre per gli inglesi i social sono la fine della privacy, per i cinesi rappresentano al contrario la nascita della privacy.

L’osservazione rappresenta bene l’ambivalenza dei social media, attraverso i quali condividiamo pensieri, opinioni, immagini sulla rete, autorizzando, anche implicitamente, l’acquisizione di informazioni che riguardano le nostre vite, in un acrobatico esercizio di equilibrio tra espressione democratica di libertà ed esposizione al controllo.

Come utenti dei social media – di reti professionali come LinkedIn o di reti sociali come Facebook o Instagram o ancora di chat di gruppo e condivisione come Whatsapp - siamo spesso inconsapevoli di assumere, oltre al ruolo di meri fruitori, anche quello di “editori” di contenuti.

Nel contesto delle relazioni di lavoro, l’impatto dei social media evidenzia in particolare l’esigenza di un contemperamento tra diritto alla riservatezza, alla privacy e alla libera espressione dei dipendenti da un lato e la legittima tutela degli interessi aziendali dall’altro.

Prima di procedere è opportuno ricordare come il diritto alla riservatezza è un diritto della personalità che è definito in via negativa come diritto di escludere gli altri dalla nostra sfera privata (ius excludendi alios), mentre il diritto alla privacy è riferito più specificamente alla riservatezza dei dati personali che, in ambito tecnologico, sono costituiti anche da tutte quelle tracce che lasciamo, utilizzando la rete, con le connesse possibilità di controllo che queste consentono, anche da parte dei datori di lavoro.

È opportuno considerare che, se come cittadino, un utente di social media è soggetto alle norme civili e penali (si pensi alla diffamazione) che regolano l’espressione della libertà di opinione, come lavoratore, quello stesso utente, dovrà rispondere ad una più vincolante disciplina, in particolare a proposito del c.d. “diritto di critica”: vengono qui, infatti, in considerazione gli obblighi di diligenza (art. 2104 c.c.), fedeltà e riservatezza (art. 2105 c.c.) che connotano il rapporto di lavoro.

Rispetto al rapporto di lavoro, occorre considerare due ambiti di attenzione

  • da un lato, il tema del monitoraggio tecnologico dei dipendenti nell’ambiente di lavoro, disciplinato dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, riscritto nel 2015 nell’ambito dei provvedimenti del cd. Jobs act che, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive, e che ha ridefinito i confini del potere datoriale di controllo, anche in relazione all’utilizzo degli strumenti tecnologici, correlandolo alla disciplina in materia di trattamento dei dati personale e del GDPR.
  • dall’altro, il tema della libertà di espressione dei lavoratori tutelata, in via generale dagli artt. 15 e 21 della Costituzione, e quindi ancora dallo Statuto  dei lavoratori che all’art. 1 sancisce il diritto di manifestare il pensiero all’interno dei luoghi di lavoro e all’art. 8 vieta al datore di lavoro, in sede di selezione e assunzione, come nello svolgimento del rapporto, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione della sua attitudine professionale.

Il primo tema è certamente noto: senza soffermarci in questa sede sulle diverse difficoltà interpretative dell’art. 4 cit., a partire dalla discussa e discutibile nozione di strumenti di lavoro, ciò che preme qui ricordare è che l’attuale formulazione della norma dello Statuto consente di utilizzare gli elementi raccolti tramite pc e cellulari aziendali anche per verificare la diligenza del dipendente nello svolgimento del proprio lavoro, con gli eventuali risvolti disciplinari connessi: il potere di controllo del datore di lavoro non è, però, illimitato ed è condizionato dall’aver compiutamente informato i lavoratori sia in ordine alle modalità d'uso degli strumenti che in ordine alle modalità di effettuazione dei controlli,  comunque nel rispetto dalla normativa in materia di privacy.

In proposito il Garante per la protezione dei dati personali è più volte intervenuto, sia prima che dopo la riformulazione dell’art. 4 cit., indicando ai datori di lavoro la necessità di fornire informative dettagliate ed esaustive, periodicamente aggiornate e correttamente diffuse.

Riguardo al secondo tema, è noto come la dialettica social media-libertà di manifestazione del pensiero può comportare ricadute anche sui comportamenti posti in essere al di fuori dell’attività di lavoro ed ha a che fare con condotte tenute nella vita privata.

La casistica giurisprudenziale al proposito ha riguardato comportamenti e aspetti della vita ricavati da foto, post, ma anche semplici like, condivisi in profili social dal lavoratore, dove la rilevanza disciplinare viene in considerazione non solo in quanto tali comportamenti possano confliggere con gli interessi aziendali, ma soprattutto perché gli stessi comportamenti, condivisi con una platea indistinta, vengono così “trasferiti” dalla sfera privata a quella pubblica.

Il potere disciplinare può, quindi, essere esercitato senza incorrere nelle limitazioni previste sul trattamento dati e sui controlli a distanza, laddove i dati condivisi dal lavoratore-utente siano presenti su profili social aperti e non ad accesso “filtrato”, essendo esclusa la possibilità per il datore di utilizzare falsi profili per accedere sotto mentite spoglie ad un gruppo ristretto al fine di raccogliere “prove”.

I contenuti condivisi via social assumono particolare rilievo quando hanno ad oggetto l’espressione di posizioni critiche nei confronti del datore di lavoro: una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha ribadito come al lavoratore sia garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro (...) ma ciò non consente di ledere sul piano morale l'immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, ed escludendo altresì che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, "intrise di assai sgradevole volgarità", prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell'azienda (Cass. 35922/2023).

Proprio l’ambito delle relazioni sindacali, dove la tradizionale bacheca fisica è stata da tempo sostituita da quella virtuale, vede peculiari fenomeni di interazione attraverso i social media: così anche la condotta del datore di lavoro che diffonda, attraverso tali mezzi, dichiarazioni diffamatorie e lesive delle prerogative del sindacato, è stata sanzionata come antisindacale (Trib. Milano, 11 agosto 2021), giudizio che sta a sottolineare come la conversazione online non abbia nulla della natura privata caratteristica dell’offline.

D’altro canto, l’utilizzo dei dati rinvenienti dai social, professionali e non, e dalle modalità del presenza sulla rete degli utenti è entrato da tempo negli strumenti a disposizione del datore di lavoro per la valutazione dei lavoratori, in fase di assunzione e nel successivo rapporto anche in relazione all’immagine dell’azienda che può trasparire dai comportamenti dei dipendenti in rete, con una possibilità di penetrazione anche nella vita privata sconosciuta al mondo analogico.

Come annota la riflessione sociologica e filosofica in materia “siamo probabilmente l'ultima generazione a sperimentare una chiara differenza tra offline e online, considerato che già nella nostra attuale esperienza “non è più ragionevole chiedersi se si è online o offline” (Luciano Floridi).

Questo processo, in veloce e a volte tumultuosa evoluzione, in assenza di una disciplina legale di dettaglio, è opportuno sia accompagnato nella vita aziendale dalla predisposizione di regole che possano aiutare tutti gli attori a rapportarsi con le implicazioni del vivere in un mondo iper-connesso con le ulteriori implicazioni – e i rischi - che comporterà la diffusione di applicazioni di intelligenza artificiale in ambito lavorativo: di questi profili si occupa il Regolamento recentemente approvato dal Parlamento Europeo e che entrerà in vigore all’esito di ulteriori passaggi istituzionale: nel frattempo, per quanto riguarda il nostro ordinamento è bene ricordare che le aziende possono continuare a sperimentare soluzioni di AI con l’unico limite (art. 1-bis Dlgs 104/2022 come modificato dal decreto n. 48/2023), di rispettare gli obblighi di informazione ai lavoratori o ai sindacati sul funzionamento dei sistemi decisionali o di monitoraggio, ma solo nel caso in cui siano interamente automatizzati.

In questo contesto, l’adozione di apposite policy aziendali, non disgiunta da un’opportuna formazione, non solo sull’utilizzo della rete e degli strumenti aziendali, in coerenza con le indicazioni fornite dal Garante della privacy, ma anche sull’uso dei social media, è strumento di sicuro ausilio nella gestione delle problematiche anche di carattere disciplinare che possono emergere da comportamenti sui social media.

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