«Molti si chiedono se ci sia davvero spazio per un altro studio internazionale specializzato nel private equity in Italia. La risposta è sì. È in corso un grande cambiamento del mercato legale italiano e il private equity è un settore di grande attenzione». Così in esclusiva a TopLegal Cataldo Piccarreta, uno dei nomi più autorevoli del private equity legale in Italia. Dopo anni da partner in Latham & Watkins, ha scelto una nuova avventura: l’apertura a Milano degli uffici di Ropes & Gray (i dettagli dell'operazione ve li abbiamo raccontati qui) colosso Usa con oltre 1.600 avvocati in tutto il mondo. Con lui entrano anche i partner Giorgia Lugli e Luca Maranetto a rafforzare un team che sarà il punto di riferimento italiano della practice europea Private equity transactions.
Da cosa è dettata la scelta di Ropes & Gray di scommettere sul nostro Paese?
Il nostro focus sarà il private equity, su cui crediamo ci siano importanti opportunità. L’Italia ha un tessuto manifatturiero di eccellenza, stabilità politica e una crescente capacità di attrarre investimenti. Quando si lavora con operatori globali serve parlare due lingue: quella degli investitori esteri e quella degli imprenditori italiani. Ed è proprio qui che occorre fare la differenza, attraverso la credibilità e le competenze necessarie per colmare il ‘clash culturale’ tra un private equity giovane, con manager che hanno in media 37-38 anni, e imprenditori spesso over 60 che hanno costruito aziende di successo. E’ strategico il ruolo dell’avvocato come interprete e facilitatore tra questi due “mondi”. Serve un linguaggio comune, fatto anche di soft skills e sensibilità locali, che solo chi conosce entrambe le culture può portare. E’ fondamentale poter contare, da una parte, su uno studio che ha la credibilità di Ropes & Gray e, dall’altra, sulla capacità dei professionisti di capire le esigenze dei clienti perché ne conoscono la cultura e l’approccio.
Il mercato italiano si distingue ancora per operazioni di taglio medio-piccolo: passaggio obbligato verso deal più grandi o freno strutturale?
Studi come il nostro guardano soprattutto a operazioni di grandi dimensioni ma il mid-market continuerà ad avere un ruolo importante. Ci sarà sempre spazio per operazioni di dimensioni più contenute, spesso legate a fondi specializzati o a specifici verticali. Ma la scala delle aziende è ormai fattore decisivo: per competere con giganti Usa o cinesi bisogna crescere, anche attraverso fusioni e aggregazioni. I grandi fondi guardano sempre più a operazioni a volte anche medio-piccole ma che sono funzionali alla crescita di aziende che hanno già in portafoglio. Sono vari i fattori globali che spingono verso le aggregazioni e maggiori economie di scala: dazi, energia, sfide geopolitiche. Le imprese italiane devono attrezzarsi per non restare ai margini, penso che l’Ai avrà un ruolo fondamentale in questo aumento della scala.
La tecnologia rappresenta ancora il settore con le maggiori opportunità?
Health care e tecnologia restano trainanti, sono legati a trend strutturali come l’invecchiamento della popolazione e la digitalizzazione. Sta crescendo molto anche il comparto dell’automazione industriale, ci aspettiamo grandi investimenti a livello globale. Più complesso il lusso e il consumer, in assestamento dopo la fase frenetica post-Covid. La transizione energetica rimane sul tavolo di tutti ma in Italia procede con tempi meno lineari, l’oscillazione dipende dalle contingenze geopolitiche e dalle priorità di approvvigionamento.
Sul piano legale e regolatorio, esistono colli di bottiglia che limitano le grandi operazioni?
L’attenzione maggiore arriva dal fronte dei governi, soprattutto con la disciplina sul golden power. Quando un investitore estero guarda all’Italia, le autorità vogliono capire bene l’impatto dell’operazione. Il livello di controllo inizia a essere piuttosto forte e rappresenta una complessità in più. Ma non è un collo di bottiglia. La maggior parte delle operazioni viene approvata senza problemi, è semplicemente un’attività in più da gestire.
Quale fattore può spingere il private equity verso operazioni di scala maggiore in Italia?
Un fattore chiave sarà l’arrivo di più capitale estero, ma anche e soprattutto l’evoluzione stessa delle strategie di investimento. Pensiamo ai fondi evergreen: non più un ciclo rigido di 7-8 anni ma la possibilità di restare investiti a lungo. Questo cambia molto il gioco perché anche fondi piccoli, con il tempo, potranno crescere di taglia avendo strategie di investimento di lungo periodo. Chiaramente le grandi operazioni richiedono team di legali che siano globali e che possano gestire problematiche complesse in vari Paesi.
In che direzione si sta muovendo il mercato legal in questo senso?
L’età media dei grandi nomi del private equity legale in Italia oggi supera i 60 anni. Figure che appartengono a una fase diversa e quasi pionieristica del mercato, costruita attorno a pochi rainmaker di riferimento. La strategia di Ropes & Gray è di puntare su professionisti sotto i 50, sulla forza dei team più che del singolo. Questo è il futuro. Inoltre il mercato italiano va verso una forte polarizzazione. Ci saranno alcuni studi che presidieranno principalmente small e mid-market puntando all’efficienza in termini di tempo e di costi. I big deal cross-border saranno terreno di pochi global player principalmente americani, già radicati a livello mondiale. Le Big Four stanno facendo un lavoro eccellente per coprire le operazioni di piccola e media dimensione. È un cambiamento inevitabile: il sistema si sta assestando, noi siamo pronti.